A tutti sarà capitato di sentire almeno una volta quest'altra stronzata della "comfort zone" e vorrei dedicare cinque minuti a mettere in ordine alcune idee sull'argomento. Secondo la psicologia comportamentale, la comfort zone è la “La condizione mentale in cui la persona agisce in uno stato di assenza di ansietà, con un livello di prestazioni costante e senza percepire un senso di rischio”. Muoversi all’interno della “comfort zone” comporta, quindi, assenza di ansia e basso rischio; uscirne comporta livelli di ansia e di rischio più elevati. Tuttavia, aggiungono gli psicologi, restare troppo a lungo nel recinto della comfort zone ha effetti negativi perché azzera gli stimoli.
Ora, però, io vorrei soffermarmi non sull’uso della nozione nella psicologia, ma sul vangelo individualistico-aziendale del quale costituisce un arnese . Del resto la psicologia comportamentale e funzionalista si lascia facilmente declinare in chiave prestazionale e neoliberale e non è un caso se ha preso avvio e si è sviluppata negli Stati Uniti. Il comportamentismo nasce a Chicago nel 1913 (l'atto di nascita è generalmente considerato l'articolo Psychology as the Behaviorist Views It di John Watson, pubblicato sulla "Psychological Review"), nello stesso anno che vede entrare in funzione la prima catena di montaggio. In ogni caso, il comportamentismo ha trovato terreno fertile e congeniale nella mentalità pragmatica ed efficientista statunitense.
Si può facilmente essere d'accordo sul fatto che, ogni tanto, nella vita si debba anche avventurarsi, lanciarsi verso cose inattese e zone inesplorate, non usare schemi fissi e rigidi. Ma farne, come accade (l’ho potuto constatare parecchie volte), un perno dell’individualismo competitivo è l'apoteosi del mito dell'individuo-impresa che deve accettare, interiorizzare e anzi trasmutare in un valore ogni difficoltà, trasformando il successo in merito e il fallimento in colpa. Superare ogni limite è la parola d’ordine!
Ma perché mai l’operaio dovrebbe uscire dalla sua “comfort zone” e non avere, invece, garanzie salariali e contrattuali nonché sicurezza sul lavoro? Appunto… E, ancora, vaglielo a dire al povero che deve uscire dalla sua comfort zone! Anzi, già che ci sei, suggerisci pure, o semplicemente implica in modo tacito, ma ferocemente, che è povero perché incapace di abbandonare la sua comfort zone precludendosi così, per sua sola colpa e grande ottusità, la possibilità di lanciarsi verso le grandi opportunità che si aprono non appena ci si consacri interamente al Verbo del Mercato. E dillo anche al salariato che ha visto precipitate il suo potere d'acquisto, e che evidentemente difetta di fantasia creativa, tanto quanto l’artigiano e il piccolo esercente oberati da una fiscalità oppressiva e iniqua; e dillo al precario che, coglione com'è, non va oltre i soliti schemi e non è in grado di proiettarsi nella grande, virtuosa ed edificante impresa del suo successo personale.
Oggi questo retroterra si salda con il modello neoliberale e iper-capitalista (l’ingegneria digitale del capitalismo delle piattaforme pesca a piene mani dal comportamentismo), a sua volta impregnato dell'ethos protestante anglosassone e può contare sulla sua profonda interiorizzazione da parte dei subalterni votati al sacrificio richiesto. In effetti, concetti come quello di comfort zone sono perfetti per essere dati in pasto a quanti devono proseguire la costruzione culturale del mito dell’impresa. In definitiva si tratta di una nozione che sembra forgiata apposta per la seconda linea della classe creativa (l'aggettivo qui ha tutto il senso dell'asservimento della creatività al mito della produzione e questo è un punto chiave) che deve fungere tra l'altro da cinghia di trasmissione verso i poveracci ai quali è richiesto, in sostanza, di accettare di non essere pagati o di essere sottopagati e sfruttati.
Questa classe intermedia di “creativi” è chiamata a far proprio il modello dell’individualismo competitivo, a basare su di esso le proprie aspirazioni personali e di carriera, e a diffonderlo.
[foto: google]
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